Natale della pandemia e responsabilità

Le restrizioni causate dalla pandemia ripropongono la ritualità natalizia consueta in tono minore e ci costringono a riconsiderare la nostra visione del mondo, del nostro Paese, della nostra città.

Italo Leone

Il momento magico del Natale: un ritrovato patto di fratellanza e di amore con i parenti più cari e con gli amici, la rinascita annuale della vita e del mondo dentro e fuori di noi, l’anelito alla pace e alla serenità, la speranza di trovare la forza necessaria contro le inevitabili avversità.
Le restrizioni causate dalla pandemia ripropongono la ritualità consueta in tono minore e ci costringono a riconsiderare la nostra visione del mondo, del nostro Paese, della nostra città.Nella confusione e incertezza sul futuro nostro e delle nuove generazioni, l’unica certezza è che c’è qualcosa  di sbagliato nel progetto di sviluppo dell’Occidente, progetto che ormai è diventato globale, visto che il grande polo di sviluppo dell’Asia più avanzata e dei Paesi più occidentalizzati della penisola araba nulla hanno da invidiare a New York, a Londra o a Parigi.
Le parole dovrebbero ormai lasciare spazio alla concretezza dei numeri allarmanti che, nei vari rapporti internazionali e nazionali, da qualche tempo denunciano una realtà sociale in cui il divario tra i ricchissimi, sempre più pochi e i poveri sempre più numerosi, cresce inesorabilmente.
Non è solo una questione economica o di giustizia sociale, La mia impressione è che la pandemia sta facendo emergere la fine di un ciclo storico iniziato alcuni secoli fa in Occidente con l’Umanesimo-Rinascimento e culminato  nella Rivoluzione Francese del 1789.
Il Rinascimento poneva al centro della Creazione l’uomo, dominatore della Natura. Il potente Cristo trionfante del Giudizio Universale di Michelangelo sulla parete di fondo della Cappella Sistina ne è la rappresentazione più evidente; simbolo di un’umanità che, con Lui, si innalza al cielo. Machiavelli, Bacone, Galileo e Cartesio, ognuno nell’ambito della propria disciplina ne furono l’illustrazione filosofica e scientifica e, rifiutando il pensiero medievale, aprirono la via alla modernità e prepararono la rivoluzione scientifica e sociale che culminò nella Rivoluzione americana contro la dominazione inglese e nella Rivoluzione francese contro i privilegi dell’aristocrazia.
Da allora i diritti dell’uomo e del cittadino: la libertà, l’uguaglianza, la giustizia sociale, il sistema democratico sancito dalle Costituzioni  sono il pilastro fondamentale dei regimi parlamentari dei moderni Stati occidentali. Quanto tali principi siano fragili l’hanno dimostrato la presa del potere di Napoleone I e di Napoleone III in Francia e l’avvento dei regimi totalitari che nel Novecento hanno scatenato la seconda guerra mondiale.
Alla centralità dell’uomo e alla difesa dei diritti umani si richiama da tempo anche la Chiesa di Roma. Ma qualcosa è cambiato all’inizio del terzo millennio.
Papa Francesco ripropone spesso una linea minoritaria del pensiero cristiano mai venuta meno: quella che si ritrova nella sua forma più poetica e popolare nel Cantico delle creature di Francesco di Assisi.
Il cantico è un inno di lode a Dio che s’innalza da una Natura in cui l’uomo è presente non come padrone, ma come parte di una realtà in cui tutte le creature hanno pari dignità, quelle viventi e quelle non viventi come frate Sole, sorella Luna, sorella Morte.
Tutto il Creato è un eterno inno di ringraziamento a Dio.
Questa nuova tendenza della religiosità cristiana si coniuga con una sensibilità laica rinnovata di cui una ragazzina svedese, Greta Thumberg, si è fatta portavoce davanti ai rappresentanti del mondo all’Assemblea dell’ONU.
Di fronte a queste istanze si ha l’impressione che la politica, pur consapevole dei problemi, faccia fatica a indicare nuove strade e nuovi modelli di sviluppo più equilibrati.
Le indicazioni vengono invece non solo da una sensibilità sempre più diffusa della gente comune, ma anche dai documenti degli organismi internazionali e nazionali più noti, come l’ISTAT e la SVIMEZ, rispettivamente l’Istituto di statistica nazionale e l’Istituto per lo sviluppo del Mezzogiorno. 
Dal Rapporto SVIMEZ per il 2019, recentemente pubblicato, riporto il capitolo Il Mezzogiorno e l’Italia nell’Europa diseguale:
Il progetto europeo non ha mantenuto le sue ambiziose promesse di uno sviluppo armonioso ed equilibrato, di elevati livelli di occupazione e protezione sociale, di un elevato grado di convergenza e di solidarietà tra gli Stati membri. Il processo europeo di integrazione si è alimentato nella convinzione che non fosse necessario prevedere diversi modelli di sviluppo tra le regioni più ricche e quelle più arretrate, e che non fosse necessario assegnare alla politica fiscale comune la funzione attiva di stabilizzazione nell’Unione. Per lungo tempo è parso sufficiente organizzare una buona politica di coesione per contenere le dinamiche della divergenza che, da sempre, interessano le aree più arretrate del vecchio Continente. Tuttavia, a partire dalla fine degli anni Settanta, i processi di globalizzazione, di innovazione tecnologica e di terziarizzazione dell’economia, hanno prodotto la cosiddetta «grande inversione». Quest’inversione ha generato nelle regioni rurali, nelle piccole e medie aree urbane e nelle aree di «vecchia industrializzazione» importanti perdite di posti di lavoro, una riduzione significativa della forza lavoro e una diminuzione del reddito pro capite. Per converso, le grandi aree urbane sono state capaci di attrarre capitali e risorse umane high-skilled tali da determinare un complessivo aumento del reddito pro capite e la creazione di posti di lavoro, soprattutto nel terziario avanzato ad alta specializzazione. Tali dinamiche di concentrazione intorno alle regioni europee del Centro hanno dimostrato di non essere in grado di avviare processi di convergenza «automatici» attraverso gli effetti di spillover, generando, al contrario, effetti di divergenza economica.
Più chiaramente laddove nelle grandi aree urbane mondiali in cui si concentrano capitali finanziari e risorse umane altamente qualificate (high-skilled) si sono potuti creare posti di lavoro nel  terziario avanzato, per quanto riguarda le regioni più lontane da questi centri, lo sperato effetto di salto qualitativo indotto (spillover) non si è verificato.
E questo vale per alcune zone dell’Italia del Nord e per l’intero Mezzogiorno.
L’UE è pienamente consapevole di tali cambiamenti e ha coraggiosamente intrapreso una politica di sostegno dei debiti attraverso la BCE e una politica di sostegno alla crescita attraverso il Recovery Plan, indicando priorità e ripartizione percentuale degli impegni di spesa. Tra le tante voci c’è quella che affronta il problema dell’equa ripartizione dei fondi e del sostegno alle aree più penalizzate. E’ su questo tema che si gioca il futuro del Meridione e della Calabria, e per questo i Presidenti delle Regioni meridionali spronate dal Presidente della Campania De Luca hanno firmato un documento e chiesto un incontro  con il Presidente Conte.
E’ sintomatico che non abbiano firmato la richiesta e partecipato alla stesura del documento i Presidenti leghisti della Calabria e della Sardegna.
Tutti i rapporti hanno rilevato che la ripartizione dei fondi tra le regioni abbia da almeno dieci anni determinato una sperequazione per il Sud di più di 60 miliardi all’anno, cosa che ha comportato minori investimenti per trasporti, scuole, asili-nido, sanità, digitalizzazione, riqualificazione ambientale.
E’ giunto il momento di prendere coscienza che, come il Piano Marshall nel secondo dopoguerra consentì la ripresa e la crescita delle economie europee, così il Recovery Plan potrebbe consentire ai vari territori dell’Europa e dell’Italia una ripresa dopo anni di crisi.
I governi devono esserne consapevoli assumendosi la responsabilità di scelte che, inevitabilmente, si ripercuoteranno sulle condizioni di vita delle nuove generazioni.

 

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