La maturità classica ha goduto e gode ancora oggi di un prestigio non immotivato: essa affonda le radici nella cultura classica greca e latina, in quel complesso di conquiste del pensiero che sono alla base della nostra specifica cultura occidentale.
Italo Leone
Le società umane, quelle antiche come le contemporanee, hanno i propri riti di passaggio che segnano le tappe più significative della vita. Nella nostra società uno di tali momenti è l’esame di maturità nel periodo che coincide con l’età in cui i giovani acquisiscono il diritto di votare. Ma il diploma conseguito con l’esame di maturità indica qualcosa in più: è anche il riconoscimento di un traguardo culturale e sociale cui si perviene non solo con l’età, ma con l’acquisizione di determinate conoscenze e competenze. Tra le diverse forme di esame di maturità, quella del liceo classico ha goduto e gode di un prestigio non immotivato: essa affonda le radici nella cultura classica greca e latina, in quel complesso di conquiste del pensiero che sono alla base della nostra specifica cultura occidentale.
I temi che negli anni sono stati proposti agli alunni della maturità hanno sempre avuto presente questo enorme patrimonio e lo hanno attualizzato rapportandolo alle tematiche del proprio tempo: quest’anno uno dei temi di maturità richiamava il problema dell’equilibrio ecologico.
Ma è la prova di latino 2017 che mi sembra la più interessante, perché invitava i candidati a meditare su un aspetto della società contemporanea che merita di essere approfondito: il ritmo accelerato che i tempi di oggi impongono alla nostra vita e le conseguenze di ciò sulla psiche umana.
Punto di partenza della riflessione era la traduzione di un brano di L. Anneo Seneca tratto dalle Epistulae morales ad Lucilium, scritte dopo il ritiro di Seneca dalla vita politica tra il 62 e il 65 d.C.
Si tratta dell’invito rivolto all’amico e discepolo Lucilio a riflettere sulla filosofia, che “forma e plasma, dà ordine alla vita, guida le azioni, mostra le cose che si debbono e quelle che non si debbono fare, siede al timone e regola la rotta nei pericoli del mare in tempesta.” (Ep. Mor. I,16)
La commissione nazionale preposta alla scelta ha preferito un autore che, nello stile e nei contenuti, è l’espressione più evidente della crisi della propria classe sociale: l’aristocrazia senatoria, che per tanti secoli era stata protagonista della storia di Roma e che a quel tempo era umiliata dai capricci e dalle epurazioni degli imperatori giulio-claudii.
Non c’è nel brano il periodare ampio e sintatticamente complesso di Cicerone, non l’essenzialità espressiva di un audace comandante come Cesare, non la profonda sensibilità di scrittori che, pur non essendo romani, provengono da ambienti provinciali che da molto tempo hanno fatto propri i valori della cultura romana come Virgilio, Orazio, Tito Livio.
Circa mezzo secolo dopo di questi, Seneca è l’esempio più illustre di quelle aristocrazie delle province più lontane che nella capitale si affermano e vengono a contatto con persone investite di un potere imperiale tanto grande da sentirsi ormai di origine divina, e che possono disporre a piacimento anche della vita della stessa aristocrazia senatoria.
Per alcuni anni Seneca è vicino a tale potere imperiale, ne indirizza la politica e ne modera come può le nefandezze, ne condivide suo malgrado i misfatti per il bene dello stato, è la guida spirituale del giovane Nerone intorno alla metà del I sec. d. C.
Ma Nerone, crescendo, manifesta sempre più il proprio carattere tirannico e megalomane, allontanandosi da quel modello ideale di governo che Seneca, come Pitagora e Platone prima di lui e gli illuministi molto dopo di lui hanno delineato.
Lontano dal potere, in disgrazia e in costante pericolo di vita, Seneca offre all’amico Lucilio, ma anche a noi, la saggezza di un comportamento che trova nella ricerca individuale della misura e nella virtù uno scudo alle avversità. Qualcuno potrebbe dire: “Che mi giova la filosofia, se c’è un destino immutabile? Che giova, se c’è un dio che ci governa? Che giova, se è il caso che ci comanda?”. Sono le domande che da secoli l’uomo si pone e alle quali Seneca, richiamandosi ai filosofi che lo hanno preceduto, risponde: la filosofia ci esorterà comunque ad ubbidire volenterosi a un dio, ad accettare il destino, a sopportare stoicamente i capricci del caso.
La filosofia oggi, per noi che siamo così presi dal vortice della vita individuale da dimenticare di riflettere sul senso che dobbiamo dare alla nostra esistenza, ha ancora un valore perché, ci dice Seneca, è necessario che di tanto in tanto ci fermiamo, e riflettiamo su temi che da troppo tempo abbiamo trascurato.