La morte di Cristo come atto di responsabilità

Il Signore ci ama, perciò si china, si assume tutto il peso di una storia disastrata: non c’è altra via per la salvezza.

Don Vittorio Dattilo
(dal notiziario Tr@cce e-mail n.1-maggio 2012)

Vivendo in Comunità Capi un momento di riflessione sulla Pasqua, mi sono rifatto a testi della Scrittura che raccontano le tappe della storia della salvezza del popolo di Dio.

Nei Vangeli lo stesso Gesù risorto rinvia alla Legge e ai profeti (tutta la parola e l’azione di Dio che lo precede) i discepoli che Emmauss’interrogano sul significato degli avvenimenti a lui accaduti in Gerusalemme nei giorni della condanna e della sua morte. «Ed egli disse loro: “Sciocchi e tardi di cuore nel credere alla parola dei profeti! Non bisognava che il Cristo sopportasse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?” E cominciando da Mosé e da tutti i profeti spiegò loro in tutte le scritture ciò che si riferiva a lui»  (Lc 24, 25-27).

L’avvenimento fondamentale nella storia del popolo di Dio, nell’Antico Testamento, a parte la vicenda dei patriarchi e di Abramo in particolare, è la liberazione dalla schiavitù del faraone. Un fatto morale, ma anche sociale e politico.
Da quel momento, Israele inizia a essere un popolo, ad avere una dignità e una terra attraverso la quale passa la salvezza del Signore. Dio interviene, snuda il suo braccio, «si ’mpada li manichi», e il popolo è chiamato a rispondere (responsabilità).

Il mantenimento della libertà e della giustizia, il godimento della vita e dei frutti della terra dipendono dall’osservanza di un patto di Alleanza, che è la carta costitutiva della nazione: la Legge. Seguire i  comandamenti garantiva la dignità di ognuno e faceva sì che la posizione di dominio esercitata dal faraone non si riproducesse all’interno delle relazioni dei membri del popolo di Dio, che è un popolo di liberi (v. Esodo 19, 1-8 e segg).

Certo, è sempre difficile stare ai patti, impegnarsi moralmente. Si può venire meno, ma ci si può reimpegnare.

Accade invece che il popolo di Dio si deresponsabilizzi a tal punto da affidare a un marchingegno magico le proprie sorti: sottomettendosi a qualcuno, acclamando un re, le cose andranno bene. Così Israele, dopo un’esperienza di libertà e democrazia al tempo di Mosé e dei giudici, si consegna alla monarchia con tutte le conseguenze che ne deriveranno (v. cap. 8 del 1° Libro di Samuele).

La storia che segue sarà uno sprofondare nella corruzione, nell’ingiustizia, nella povertà, nel dissesto sociale e politico e quindi nella soggezione alle potenze straniere. Assiri e Babilonesi conquisteranno la Palestina, distruggeranno Gerusalemme e deporteranno parte del popolo nelle loro capitali (v. 2° Libro delle Cronache 36, 14-16 e 19-23)

La sofferenza conseguente e la crisi di prospettive future avvicinano il resto di Israele a una riflessione che rispecchia il modo di essere di Dio e del suo manifestarsi nel mondo. Il Signore ci ama, perciò si china, si assume tutto il peso di una storia disastrata: non c’è altra via per la salvezza.

Questo progetto s’incarna nel Servo del Signore descritto dal profeta Isaia (v. Is. 42, 1-9; 49, 5-6; 50, 5-7; 52, 13-15; 53, 1-9; 53, Ecce homo11-12).
C’è una continuità unica fra questa descrizione di Isaia (ed anche altri testi biblici scritti molto tempo prima) e il Vangelo e il Nuovo Testamento.  Tutto l’impegno e le conseguenti sofferenze di questo personaggio sono da leggere non tanto nella prospettiva del dolore e dell’espiazione, quanto nell’ assunzione di responsabilità, nel “mi sta a cuore”.

In fondo, è questa la fede sulla quale anche noi siamo chiamati a camminare, in un tempo in cui le leggi vengono fatte perché le osservino soltanto gli altri e la loro efficacia viene riposta non tanto nel responsabile convincimento dei destinatari, quanto nell’ automatismo del mero piano penale.

La parola responsabilità viene dal verbo rispondere, essere almeno in due perciò, significa portare avanti un progetto, riporre fiducia in chi me l’ha proposto, attendere, avere fede, credendo nell’avvenimento che si aprirà, germoglierà, senza mettere le mani avanti, senza pensare a soluzioni predisposte con strumenti illegittimi, non comprando i risultati, ma mettendo in pratica le proprie risorse e facendo consistere in queste il giusto attivismo certamente non manipolatorio.

In questo modo l’uomo ritrova se stesso e l’umano in una realtà trasformata dalla fede, superando i contatti magici, illusori e religiosi dell’idolatria. Perché in fondo di questo si tratta.

Allegato: I brani della Scrittura citati nell’articolo.

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