Da venti anni circa il declino della scuola superiore è sempre più evidente… A questo si aggiunge anche una insufficiente attenzione dello Stato alla formazione dei docenti e alla didattica delle diverse discipline.
Italo Leone
“Il rapporto di lavoro è prima di tutto un rapporto di fiducia. È per questo che lo si trova di più giocando a calcetto che mandando in giro dei curriculum“. Questo il pensiero espresso da Giuliano Poletti, ministro del Lavoro del governo Gentiloni, in un incontro con gli studenti di un Istituto di Bologna.
La considerazione del ministro, d’altro canto, è in accordo con una precedente affermazione in cui, riferendosi a tanti giovani che, non trovando lavoro in Italia, sono stati costretti a cercarlo in altri Paesi, Poletti concludeva: “Se ne sono andati in 100.000 e sono rimasti in 60 milioni. I primi non sono tutti bravi e i 60 milioni non sono tutti pistola. Permettetemi di contestare questa tesi. Conosco gente che è andata via e che è bene che stia dove è andata. Sicuramente questo Paese non soffrirà moltissimo a non averli più tra i piedi“.
Io conosco invece diversi ragazzi che, secondo Poletti, non avremo più tra i piedi, giovani capaci e studiosi che avrebbero dato lustro all’Italia e soprattutto al Meridione. Alcuni sono stati miei alunni o alunni nelle scuole superiori di Lamezia Terme.
Chi sa cosa ne pensano dell’esternazione del ministro le numerose famiglie che, con preoccupazione, vedono i propri giovani sparsi in varie parti del mondo.
Eppure, pur nella giusta indignazione, riconosco che i lapsus di Poletti tradiscono un fondo di verità che le parole della politica si sforzano in tutti i modi di nascondere. E’ una verità che, nel mio mestiere di docente nelle scuole superiori, non ho mai voluto accettare perché tutti devono avere pari opportunità nello studio e devono essere giudicati con serena obiettività, affinché il titolo di studio che la scuola certifica corrisponda alle esigenze di un eventuale datore di lavoro. Mi sono sempre lasciato guidare da questo principio che, prima di essere un principio morale, è affermato dalla nostra costituzione.
Ma c’è un episodio, accaduto molti decenni fa, che ancora mi tormenta.
I genitori di un alunno che aveva carenze in molte discipline, perorando la causa del proprio figlio candidato alla maturità, mi dissero di aiutarlo comunque in quella fase; “in seguito ci avrebbero pensato loro, nella vita, a sistemare le cose”.
In tanti anni quelle parole le sento ancora risuonare nella mente, perché in fondo mi rendo conto che nella realtà della vita, al di là di tutti gli inni alla meritocrazia che ci propinano politici e manager, le cose funzionano così.
Cattedre universitarie create ad hoc, figli, parenti o amici di politici più o meno importanti che riescono a trovare posto in Enti, banche, amministrazione pubblica a tutti i livelli. Le statistiche, con linguaggio asettico e burocratico, ci dicono che la mobilità sociale nel nostro Paese è quasi ferma.
Da venti anni circa il declino della scuola superiore è sempre più evidente e televisione e giornali ci raccontano che in vari concorsi molti candidati hanno una evidente difficoltà a scrivere correttamente in italiano e a formulare il pensiero in forma chiara e logica. Le carenze di molti diplomati nelle scuole superiori si ripresentano poi in maniera preoccupante nel primo anno di frequenza all’università e per molte facoltà si ricorre a corsi integrativi per colmare le lacune.
Insomma il livello medio di preparazione dei giovani laureati negli anni si è abbassato e hanno ragione le imprese a tener conto nei colloqui di altri fattori oltre al curriculum.
E tuttavia affermare che il curriculum è inutile, detto da un ministro, contribuisce a svalutare molto l’attività di una scuola in cui, malgrado tutto, molti docenti si impegnano in un lavoro che ha poco riconoscimento sociale e che, a livello universitario, esprime ancora tanti giovani professionalmente preparati e spesso costretti a trovar lavoro fuori d’Italia.
Queste mie convinzioni, che poggiano sull’esperienza di uno che con la scuola ha avuto a che fare per tanti decenni, sono scaturite dal progressivo degrado nella formazione dei giovani che ho potuto constatare soprattutto negli ultimi venti anni. A questo si aggiunge anche una insufficiente attenzione dello Stato alla formazione dei docenti e alla didattica delle diverse discipline. Che questo degrado sia da attribuire ai cambiamenti intervenuti nella società postindustriale a causa della diffusione dei nuovi mezzi elettronici di comunicazione di massa, o alle scelte della politica a livello nazionale e internazionale, o ancora al venir meno della famiglia come luogo fondamentale nella formazione delle coscienze dei giovani, richiede certo analisi più articolate che meritano ulteriore approfondimento.
Eppure è evidente.