In occasione del centenario della Grande Guerra,
corrispondenza di soldati nicastresi dal fronte
Lucio Leone
Con l’ingresso del nostro Paese nel primo grande conflitto mondiale centinaia e centinaia di migliaia di giovani vengono chiamati a combattere per la Patria e spediti lontano da casa.
I nostri soldati, di qualsiasi grado, avvertono allora, fin da subito, il bisogno di comunicare con le proprie famiglie e scoprono, conseguentemente, l’importanza fondamentale della lingua scritta.
Chi mancava della necessaria istruzione si faceva aiutare da chi la possedeva, qualcun altro trovava il tempo e la voglia, anche in quelle tragiche circostanze, di imparare.
Prende avvio, pertanto, dal giugno 1915 fino al 1918 una fittissima corrispondenza tra il fronte o le caserme e il resto del Paese, che alla fine della guerra ha fatto registrare un volume di corrispondenza che si aggira intorno a quattro miliardi, tra lettere, cartoline e pacchi.
Diversa cosa non fu per la Francia, l’Inghilterra e la Germania, Paesi nei quali il servizio postale smistò durante gli anni di guerra un volume di corrispondenza addirittura superiore a quello dell’Italia.
Tale fenomeno, per la verità, si era manifestato già durante la guerra di Libia (1911-1912), ma in misura decisamente minore. Ora, invece, considerate le dimensioni del conflitto, si presenta in proporzioni veramente straordinarie.
Ricevere una lettera era per il soldato un dono prezioso, come anche un conforto scriverla. Una medicina per l’anima, una iniezione di benessere e di fiducia, che leniva la vita durissima della trincea, tra mille pericoli e sofferenze, in compagnia di tanti altri commilitoni dalla parlata diversa e, a volte, incomprensibile. Ogni terra d’Italia aveva dato i suoi uomini.
I giornali d’Italia, sia quelli quotidiani che quelli periodici, riportarono nei loro numeri molte di queste lettere. Così fu anche per i giornali calabresi. E quelle lettere, ha scritto qualcuno recentemente, sono diventate il «romanzo popolare di una nazione».
A leggere oggi quella corrispondenza si resta stupefatti, quando per l’entusiasmo, quando per la sottovalutazione del pericolo, quando ancora che per quel giovanile spirito di avventura che traspare o per altri aspetti che, a distanza di tanto tempo, non facilmente noi uomini d’oggi sappiamo comprendere.
«Mio carissimo padre» scriveva un fante di Nicastro nell’agosto del 1915 «con animo orgoglioso vengo con questa mia ad annunciarvi che anche il vostro figlio ha assaggiato il piombo austriaco. Ripeto ne vado orgoglioso, poiché anch’io modestamente ho voluto dare il mio contributo alla patria. Non appena guarirò…, cercherò assieme ai miei compagni di dare una più solenne lezione al secolare nemico, agli odiati seguaci di Don Franceschino ».
In una sua del 15 aprile 1916 da Selvuzzis (presso Udine) un ufficiale nicastrese dei Granatieri scrive alla sorella minore: «I granatieri si fanno ammazzare, ma non volgono mai le spalle!… Qui alloggio in una casa di contadini dove, però, ho un bel letto. Che vuoi? Non c’è mica del lusso, ma, in compenso, trovi quella affabilità, quella scioltezza di modi, propri delle contadine friulane che ti fanno dimenticare tutto ciò che manca».
Da lì a qualche settimana, nell’agosto del 1916, il nostro ufficiale perderà la vita, mentre «con mirabile slancio» guidava la sua compagnia all’attacco dei trinceramenti nemici. Gli sarà conferita per questo la medaglia d’argento al V.M.
Oltre che le lettere, più raramente sui giornali di Nicastro si trovano anche dei versi. Eccone alcuni, scritti da un soldato nicastrese che fortunatamente ritornerà a casa sano e salvo. In essa l’improvvisato poeta esprime la nostalgia della propria terra e il timore di non potervi tornare mai più, come è accaduto per molti suoi compagni d’armi che «dormono all’ombra del bel tricolore».
Vola canzone
Vola, canzone mia, lontan lontano
Dove il cuore lasciai tutto a brandelli
E de la vita gli anni miei più belli Dolendo vissi.
Vola, canzone mia, col vento ghiaccio
De l’alpi del Cador laggiù t’invio,
Vola, canzon, sul mio suol natio
Vola tra i bruzii.
E loro porta dei lor figli il bacio
Il nostalgico pianto ed il saluto
L’ultimo addio del povero caduto
Gridando Italia!…
Tu dillo, sì, che da leon si batte
La legion dei briganti di Calabria
E sfida ognora la tedesca rabbia
La corda ed il Boia,
Che d’Austria i baluardi vanno infranti
Sotto il loro impeto irruente,
Che Trento e Trieste, sì, saran redente
Col lor sangue.
Gridalo pur che tante vite giovani
Dormono all’ombra del bel tricolore
Sotto un mucchio di sassi e qualche fiore D’alpe appassito.
Ma che non pianga sul caduto eroe
La curva madre da le guancie cave,
In dui spezzata mormorante un’Ave
Nel sacro tempio!…
Vola, canzone, più che il mo pensiero
Valica i monti e su l’azzurro mare
Sorvola, oh! tu vammela a baciare
La mia tiranna.
Dille che quando la feconda messe
Maturerà de la selvaggia guerra,
Ritornerò laggiù ne la mia terra
A lei per sempre;
Che de la brezza vespertina all’ali
De l’alma il bacio affettuoso affido
Per lei che sogno… al suo bel dolce nido
Vola, canzone!…
E passando pel ponte delle Grazie
Per Soveria Mannelli ed Aspromonte
Gli eroi caduti per la patria in fronte
Baciali tutti.
Gli eroi caduti per l’indipendenza
Gli eroi del quarantotto e del sessanta
E insieme a lor canzone mia tu canta:
Italia, Italia!
Zona di guerra 3 settembre 1915