Prendere parte senza prendere partito: una utopia possibile? La cosa più importante è la coscienza che i cattolici, e gli Adulti Scout Cattolici tra loro, devono avere della storicità delle loro scelte in campo sociale, scelte che postulano una loro non delegabile responsabilità.
Francesco Marchetti
Premessa
Questa riflessione, che, da un punto di vista dello stile letterario, potrà apparirvi scritta con pacatezza e perfino con apparente distacco, nasce invece da una profondo travaglio interiore, che, tenendo a bada una naturale vena polemica, cerca, da sempre, accenti di una verità condivisa, unica possibilità per gli A/S di percorrere, come Movimento unitario, “Strade” che non portino a “vincere”contro un ipotetico avversario, ma, piuttosto, a “con-vincere” (vincere-con vincere insieme) circa la bontà di valori universali che realizzino per tutti gli abitanti di questa Polis Globale che è divenuta la terra, il tripode fondamentale del nostro essere uomini: Libertà, Giustizia e Pace.
Una ricerca di verità-condivisa tanto più faticosa per me in quanto criticamente equidistante sia da certa <destra> che da certa <sinistra> cattolica, due posizioni ideologiche che, in questi ultimi cinquanta anni, la mia personale esperienza ha portato a valutare come due <errori> simili e (per quello che può valere il mio giudizio) altrettanto nocivi per il nostro comune desiderio di “lasciare il mondo un po’ migliore di come l’abbiamo trovato”.
La <destra> cattolica non riesce infatti a staccarsi dalla concezione teocratica-costantiniana in una contaminazione continua tra religione e politica. A questi fratelli nello scoutismo, vorrei obiettare che se i cattolici vogliono veramente essere coerenti con il loro essere democratici, per prima cosa dovrebbero rispettare, vorrei dire volere, una sana laicità delle strutture terrene. A mio giudizio non si può porre la politica a servizio della propria confessione religiosa o dell’apostolato di fede.
Parimenti ritengo di dissentire, dalle posizioni di certo integralismo di <sinistra>, di coloro cioè che sostengono posizioni di mera contestazione, di coloro che vorrebbero ridurre ad archeologia politica tutto quanto i cattolici, come tali, hanno costruito in ambito sociale e politico. Di coloro che considerano un controsenso che i cattolici possano riconoscersi tali, anche fuori dalle chiese, non più in nome della loro religione, ma in nome dei loro valori, e soprattutto che questi valori possano avere anche una precisa configurazione umana e che tale assetto sociale possa liberamente affermarsi nell’ambito delle strutture civili.
Personalmente non mi sento di contestare in blocco le realtà politica italiana esistente, solo perché in parte e trasversalmente irrazionale. Non ritengo utile respingere tutte le attuali forme storiche di presenza cattolica in Italia, solo perché non combaciano con il mio quadro ideale. Sarebbe frutto del peggiore ideologismo non voler tenere conto del dato concreto e rifugiarsi sull’Aventino delle città utopiche. Ritengo abbia un senso solo una proposta positiva, che parta dalla posizione concreta, sia pure con l’intenzione di rinnovarla. Stante il fatto che i cattolici, e gli Adulti Scout Cattolici con loro, sono <anche> una realtà politica e stante che il loro ritiro dalla cosa pubblica in Italia oggi non è pensabile, né tanto meno auspicabile, vorrei provare ad individuare un senso, sia storico che attuale, per quanto possibile condiviso, a questa presenza. Questo è il razionale di quanto andrò a scrivere, assumendomene tutte le personali responsabilità.
Democrazia come partecipazione
Gli uomini del nostro tempo prendono sempre più coscienza che per garantire la vera partecipazione dei cittadini alla elaborazione delle scelte politiche non basta più un sistema giuridico-istituzionale formalmente democratico, che si limita di fatto a garantire ai cittadini diritti inviolabili e dignità sociale, senza rendere effettivo il godimento di questi diritti, mentre permangono ostacoli di ordine economico e sociale che limitano e ostacolano di fatto l’eguaglianza dei cittadini e impediscono il pieno sviluppo della persona e la effettiva partecipazione di tutti all’organizzazione politica, economica e sociale del paese. Certo si può fare notare che l’articolo 3 della costituzione promuove un assetto sociale che cala nelle forme della democrazia liberale il contenuto di una democrazia partecipata da tutti i cittadini. Tuttavia, a sessantasette anni dall’entrata in vigore della costituzione, credo si debba con dispiacere constatare, che il disegno dei costituenti è rimasto largamente incompiuto proprio in alcune sue parti più significative.
La democrazia nel nostro paese è praticamente circoscritta all’esercizio del voto, esercizio quindi periodico e momentaneo e per di più sollecitato, almeno in questi ultimi tempi, non da problemi socio politici reali, ma da spinte ideologiche e polemiche più o meno personali, generate dalla conflittualità del momento.
Si avverte allora l’esigenza di una prassi democratica che innalzi la piattaforma del diritto dal diritto di essere al diritto di ottenere.
Due sono le possibili strade:
La prima è quella della creazione del partito di massa, strada che ha come inevitabile sbocco lo stato comunista, nel quale la esigenza di salvaguardare le conquiste della rivoluzione conduce ad una dittatura di fatto, in cui la dialettica governanti-governati si risolve a favore dei primi e si risolve in un errore peggiore del male che si vuole evitare.
La seconda strada è quella della crescita graduale della partecipazione attiva dei cittadini, della promozione della stessa attraverso la valorizzazione dei gruppi di pressione, i quali possono avere una funzione positiva o meno a seconda che siano parassiti di una democrazia formale (gruppi di pressione propriamente detti) ovvero per contro componenti di una democrazia partecipata (gruppi di opinione).
Su queste realtà associative si polemizza di frequente, ma la verità è che si confondono, più o meno volutamente, le carte. Non è infatti la stessa cosa parlare di gruppi di pressione facendo riferimento a grosse concentrazioni monopolistiche o di catene editoriali o peggio di associazioni mafiose. O invece fare riferimento a sindacati di lavoratori o confederazioni imprenditoriali, ovvero ad associazioni di cittadini come per esempio l’Azione Cattolica o il Movimento Scout. Quelle aggregazioni cioè che più propriamente potremmo definire” gruppi di opinione”.
Se i partiti o comunque i livelli decisionali fossero capaci di un ascolto non strumentale di queste voci, e di intendere una democrazia dove il potere non fosse così altamente centralizzato e dove non si assumesse come volontà del popolo la volontà della maggioranza dei suoi rappresentanti, avremmo costruito tutti insieme una società più democratica nella misura in cui avremo una democrazia più partecipata.
Se intendiamo, dunque, la democrazia come partecipazione, allora è inevitabile riflettere sulle carenze dell’attuale situazione anche dal punto di vista degli strumenti che dovrebbero favorire tale partecipazione ed innanzitutto riflettere su i due strumenti istituzionali che la nostra costituzione indica allo scopo: Il partito politico ed il sindacato.
I partiti attuali: strumenti inadeguati
I partiti attuali appaiono sempre più incapaci di tenere il passo con lo sviluppo della società civile, con la conseguenza di un crescente distacco fra l’elettorato ed i loro organi direzionali. Non si tratta soltanto del divario, in termini numerici, fra gli elettori e gli iscritti di ciascun partito, quanto piuttosto della incapacità dei partiti a condurre un dialogo effettivo con gli elettori ed in senso più ampio con l’opinione pubblica.
Nel loro interno i partiti appaiono chiusi al dialogo, impenetrabili a forze giovani, in essi tendono a consolidarsi ad emergere ristrette oligarchie di vertice, che attraverso l’apparato organizzativo tendono a gestire il partito e quindi la politica anziché servirli. Non ci si può quindi meravigliare che solo una ristretta percentuale di cittadini aderisca ai partiti e che una percentuale sempre più ampia si “rifugi” nell’astensione dal voto. Debbo purtroppo constatare che, se il sistema dei partiti è una componente essenziale del sistema democratico, esso non soddisfa o quanto meno non esaurisce tutte le esigenze di partecipazione sociale che richiede il nostro Paese all’odierno livello di sviluppo.
I sindacati oggi: ambiguità e divisione
Perché il sindacato possa dare un effettivo contributo ad una democrazia partecipata, occorrono alcune condizioni fondamentali, che a mio giudizio non si presentano oggi in Italia: la prima delle condizioni necessarie è l’unità sindacale dei lavoratori. Il sindacato dà infatti un suo contributo alla partecipazione democratica nei limiti in cui adempie pienamente al suo ruolo di agente contrattuale dei lavoratori, nell’impresa privata, nella pubblica amministrazione e nella stessa politica di programmazione economica. Nella misura in cui i sindacati si ideologizzano e si dividono in centrali politicizzate che spendono una parte consistente della loro azione e del loro specifico nella polemica reciproca, essi divengono inevitabilmente centri di frustrazione della partecipazione democratica degli stessi lavoratori, che vengono in qualche modo “appaltati” ai partiti, incidendo negativamente su una effettiva dialettica democratica.
In realtà la divisione sindacale in Italia risale ad una scelta giusta e necessaria compiuta dai lavoratori cattolici nel 1948 per respingere la strumentalizzazione comunista del sindacato unitario. Ma appunto la ragione fondamentale di quella scelta, cioè il rifiuto della strumentalizzazione politica del sindacato, insieme con la scelta in positivo di costruire un sindacato libero e democratico, è ancora oggi una valida indicazione metodologica su quella che dovrebbe essere la giusta collocazione del sindacato nella società democratica. Ad una nuova unità sindacale si dovrà comunque arrivare, nella logica di una rimeditazione delle funzioni tipiche del sindacato, non già per un accordo politico dei vertici, ma come risposta ad una esigenza di tutti lavoratori di avere un sindacato che sia vero canale di partecipazione associativa e non solo un servizio tecnico efficiente ma burocratizzato.
Strumenti di partecipazione non istituzionali
La crisi di significato delle due categorie istituzionali della vita democratica in ordine ad una democrazia come partecipazione ha certo inciso negativamente sulla possibilità di consolidamento di una democrazia che ha nel nostro paese una storia relativamente recente. Ci si potrebbe chiedere se la acclarata insufficienza di questi due strumenti, partito e sindacato, non fosse prevedibile, ma, per ragionare in positivo, domandiamoci invece se non si debba rivalutare l’importanza di altri modi di formazione delle opinioni, di altri centri di crescita delle idee e di formazione della persona, di altre sedi di elaborazione delle scelte: fino a riconsiderare ampiamente il ruolo dei Movimenti, dei gruppi spontanei, dei punti di incontro e delle sedi di rappresentanza non istituzionalizzata, attraverso i quali i cittadini possono esprimersi più ampiamente e liberamente pur senza negare valore agli strumenti di sintesi politica, ma anzi così valorizzandoli.
E’ la stessa evoluzione culturale ed economica della società in cui viviamo che, attraverso una presa di coscienza a livello culturale, dei diritti e dei doveri degli individui e dei gruppi, favorirà la tendenza al costituirsi di Movimenti attorno a convergenze culturali, economiche, professionali ed anche ideali; Movimenti che prenderanno sempre più coscienza di poter contribuire con iniziative culturali e di studio, ma anche con coraggiose azioni di pressione democratica, ad orientare decisioni politiche che pur spettano istituzionalmente ad altre istituzioni pubbliche.
Questa evoluzione della partecipazione dei cittadini alla vita pubblica ha certamente una valenza positiva, in quanto realizza un effettivo allargamento dell’assunzione di responsabilità, ma può presentare i suoi limiti nel pericolo, sempre presente, di un più facile prevalere di interessi di parte ed il conseguente indebolirsi dei necessari vincoli solidaristici, che per noi Adulti Scout Cattolici trovano fondamento nella coscienza della comune condizione umana e nella comune fratellanza di figli di Dio.
Ma, nonostante questo limite possibile, è certo che questa visione di una partecipazione “politica” più articolata, che tende a superare lo schema tradizionale che vede solo nelle istituzioni partitiche e sindacali gli elementi che contribuiscono alle scelte legislative, è una tendenza difficilmente arrestabile e che, riteniamo, non sarebbe bene arrestare, perché può dare un apporto positivo di idee, di esperienze, e di nuove energie alla convivenza sociale ed in definitiva alla democrazia del nostro Paese.
Tuttavia possiamo e dobbiamo domandarci: c’è spazio, c’è rappresentanza, c’è ascolto, per questi movimenti nell’Italia di oggi? C’è qualche istituzione che li ascolta con sincerità, senza secondi fini strumentali, che non giudica una inutile seccatura verificare ciò che di costruttivo questi movimenti propongono sul piano di legittime attese sociali ed economiche, talora, di ampi strati della collettività?Domande sicuramente legittime a cui mi sembra dover dare, ancora oggi, risposte sostanzialmente negative, e per le quali, come contraltare, è necessario porsi altre domande: quante volte sono proprio questi stessi Movimenti ad avere in sè le stesse chiusure interne che essi denunciano nei loro interlocutori e che impediscono loro di essere davvero forze partecipi di una moderna articolazione democratica? E quante volte impedimenti alla partecipazione democratica di questi Movimenti sono da riferirsi ad una chiusura corporativa che impedisce loro di fare un discorso di sintesi e di andare al di là della difesa di qualche privilegio?
Sono, a mio giudizio, interrogativi ineludibili, circa la possibilità di “prendere parte senza prendere partito”, ineludibili e del tutto pertinenti alla situazione Italiana, dove Movimenti nascono in contestazione verso la politica ed i partiti, ovvero in contestazione verso un certo modo di fare politica degli attuali partiti, e dove quindi sono reciproche le responsabilità se fra il mondo dell’associazionismo ed i partiti non c’è quel dialogo utile e quell’ascolto vero che pur sarebbe auspicabile e certamente utile ad una democrazia partecipata.
Quanti giovani, oggi, pregiudizialmente sfiduciati e/o precocemente delusi dalle esperienze partitiche prendono la strada del club chiuso in se stesso.
Quanti generosi tentativi di sperimentare il faticoso e pur avvincente cammino di realizzare una stampa libera attraverso riviste associative vengono giudicati soltanto con il metro dell’impaginazione grafica o della tiratura, mentre se ne dovrebbe apprezzare lo sforzo di una ricerca propositiva e la testimonianza ideale.
Quanto lavoro di uomini e donne e quanta fecondità di risultati c’è nell’impegno formativo, solidaristico e valoriale dell’ associazionismo.
Per contro, quante competenze professionali, quante energie umane e quante risorse economiche vengono perdute dietro ad astratti disegni o dietro impalcature scenografiche costruite solo per la difesa di egoismi e di privilegi settoriali e/o corporativi.
Prendere parte senza prendere partito?
Allora si torna alla domanda iniziale, prendere parte senza prendere partito è una realtà possibile?
Se i partiti, ed i centri decisionali in genere, fossero in grado di porsi in ascolto, un ascolto non strumentale, delle voci che giungono dai movimenti liberamente costituitisi nella società, se, per contro, i movimenti sapessero sempre ricondurre al generale il senso del loro impegno, si potrebbe realizzare una società più democratica, nella misura in cui avremmo una democrazia più partecipata.
Questa democrazia partecipata, vorrei dire integrale, oggi non possono darcela i partiti così come sono strutturati al loro interno. I partiti sono e restano strumenti insostituibili della vita democratica a condizione che si mettano in ascolto, a condizione che si “aprano” idealmente ma anche strutturalmente. Un partito “aperto” è un partito che non si trincera dietro gli sbarramenti ideologici ed i reticolati dell’apparato. Un partito “aperto” è un partito che dialoga con tutti i movimenti e con tutte le forze vive della realtà sociale, è un partito che imposta in termini di servizio il rapporto con i cittadini e le loro aggregazioni, e sa quindi evitare ogni qualunquismo come ogni irreggimentazione totalitaria. E’ soprattutto questa irreggimentazione che oggi rifiutano i giovani e gli adulti, gli uomini di cultura e gli operai. E’ in questa visione complessiva che risaltano positivamente tanto l’auspicata evoluzione alla semplificazione del panorama politico in senso partitico, quanto l’attuale svilupparsi di un autentico pluralismo nell’associazionismo, un associazionismo capace di elaborazioni culturali sui problemi generali della società in cui si trova ad operare.
Se bipartitismo vuol significare quanto fin qui argomentato, allora può essere uno schema auspicabile, purché – ribadiamo – esso non si realizzi come puro strumento di vertice, ma come realtà “aperta” che sa porsi in ascolto di tutte le realtà associative, anche non partitiche, favorendo una più diffusa partecipazione dei cittadini.
Non si tratta in definitiva di negare il sistema dei partiti, ma di auspicare la sua necessaria integrazione in un sistema in cui i partiti non pretendano di essere l’unico luogo di formazione e di espressione della volontà popolare, bensì i necessari democratici strumenti di organizzazione del consenso e della sua rappresentazione in ordine al governo della cosa pubblica. Perché la necessità di una maggiore partecipazione dei cittadini alla gestione della vita democratica non si risolve con uno sforzo di interpretazione delle aspirazione popolari da parte di vertici illuminati, ma con una partecipazione corale di tutti i cittadini, in cui tuttavia non si annullino le voci di ogni singola persona e le voci dei Movimenti spontanei in cui le persone si esprimono.
Al proposito così scriveva Ernesto Balducci nella prefazione al libro “la forza di amare” di Martin Luther King (ed. SEI Torino 1968): “uno dei fenomeni che meglio esprimono la novità dei tempi è la presenza nel mondo di uomini singolarmente nuovi, il cui tratto caratteristico non è, come nelle forti personalità del passato, l’ostinata fedeltà ad una ideologia, ma piuttosto l’incrollabile fermezza nel seguire la voce della coscienza al cospetto delle istituzioni. Uomini del genere non coltivano nella società la speranza di toccare le sponde della felicità terrena per mezzo di qualche taumaturgica riforma o della vittoria di un partito. Essi sono, per lo più, uomini diffidenti delle teorie, sicuri che il rinnovamento del mondo non dipende da una nuova dottrina, ma dalla forza inventiva della coscienza morale «siamo testimoni – si legge nella Gaudium e Spes – di un nuovo umanesimo, in cui l’uomo si definisce anzitutto per la responsabilità verso i suoi fratelli e verso la storia». L’umanesimo della responsabilità non è certo un privilegio dei Cristiani, e tuttavia esso trova nell’ambito dei Movimenti Cristiani il clima più adatto per nascere e prosperare. Anzi non c’è dubbio che domani, cadute antiche alleanze e antichi conformismi, i Cristiani saranno, nel contesto di un mondo sempre più contenuto entro le forme della laicità, il nucleo più vivo della società, l’organismo comunitario in cui il senso di responsabilità verso la storia sarà acutissimo e fecondo”. Fin qui padre Balducci; è molto difficile, oggi, fare ragionevoli previsioni sulla realizzazione di questi principi nella realtà politico-istituzionale italiana, mi sembra che questa prospettiva di un nuovo umanesimo e di una democrazia partecipata sia una idea ancora non completamente presente nelle coscienze dei singoli e dei partiti. Ma se quanto preconizzava p. Balducci è vero, allora credo che gli Adulti Scout Cattolici hanno probabilmente una vocazione specifica a contribuire a questo assetto più ricco e più fertile, più aperto e più spontaneo e tutto sommato più democratico, della realtà politica italiana. Un nuovo assetto, in cui la nobiltà del compito affidato alla politica nella organizzazione della convivenza umana, e la grandezza del servizio oblativo dell’associazionismo, in particolare di quello Cristiano, si compongano in modo più armonico assumendo così, l’uno e l’altro, un più profondo significato etico e democratico.
Conclusione
Di fronte alla morte delle ideologie e prima che ideologie nuove prendano nuovamente possesso della società, dobbiamo dunque avere una grande fiducia nelle idee vive e pensate: un cristianesimo che voglia essere, anche nella convivenza sociale e politica, comunità di servizio deve a mio giudizio innanzi tutto ripensare molti dei contenuti che nel corso degli anni si sono deformati a misura della battaglia ideologica che nolenti o volenti abbiamo pur combattuto.
Queste riflessioni assumono perciò solo il senso di una preparazione del nostro campo di azione, di una preparazione di noi stessi, per riflessioni ulteriori sui veri e concreti contenuti della nostra testimonianza di Adulti Scout Cattolici nella vita sociale e politica del nostro Paese, nella perfetta coscienza che il Cristiano non può essere motivato all’azione politica dal desiderio di conquistare il potere, ma dal desiderio di servire, anche da posizione di potere, proponendo soluzioni politiche utili ad un effettivo sviluppo della società nel suo complesso.